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Olivo e biodiversità

Attualmente in Italia sono più di 400 le varietà iscritte nello schedario olivicolo, a cui si devono aggiungere nomi di origine dialettale e altri sinonimi da questi derivati. Le colture olivicole sono distribuite, nella “zona fredda”; situata nelle aree limitrofe ai grandi laghi alpini, sulla dorsale appenninica, sui colli Euganei e nel triestino in prossimità del mare; nella zona “temperata” dell’Appennino Ligure proiettato verso il mare, dal litorale tirrenico fino a Terracina, e dalla costa Adriatica partendo da ancona fino a Bari, inclusa la Basilicata; nella “zona calda” che ingloba, oltre alla Sardegna ed alla Sicilia, la fascia costiera ligure, i litorali tirrenico e, ionico-calabro e pugliese, adriatico a Sud di Bari.
Una sommaria ripartizione climatico-territoriale non può soddisfare la nostra conoscenza ed offrirci  un’idea soddisfacente sulle caratteristiche dell’olivo che oltre al suo territorio in senso più stretto è legato ad antiche radici. Non solo la zona di produzione quindi, ma anche il suo sapore, più dolce nella zona ligure (taggiasca, colombara, razzola, pignola ) e più deciso nella zona centrale e meridionale (leccino, coratina, carolea, nocellara moresca ), le sue tecniche di coltivazione, di potatura e di raccolta, differenziano le diverse specie.
Non sappiamo con certezza quando sia stata introdotta, in Liguria, la coltivazione dell’olivo, ma ci sono giunte testimonianze di storici romani che affermavano la dipendenza dei liguri dalle regioni del sud della Francia per il rifornimento dell’olio. Numerosi studiosi sostengono che l’ulivo si sia diffuso in Liguria nel Medioevo, grazie ai monaci benedettini che insegnarono alle popolazioni indigene la coltivazione di questa pianta. Altri storici  sostengono invece la tesi che la coltivazione sia provenuta dall’Oriente e, più in particolare dai Crociati. Non esistono testimonianze certe che possano dare maggiore rilievo ad una teoria ed escluderne l’altra. Quello che sappiamo con certezza è che a partire dal XVI secolo, la scarsità di grassi animali e la richiesta sempre maggiore d’olio d’oliva, convinsero i Liguri a dedicarsi a questa coltivazione, sempre più redditizia. Ne sono testimonianza le numerose giare, nelle quali  veniva conservato l’olio, rinvenute in numerosi scavi archeologici. Il lavoro di trasformazione ed adattamento di un territorio così aspro ed impervio, non fu semplice. Uno studioso ha così calcolato il costo dell’impianto di un uliveto in giornate di lavoro:

Poiché in un ettaro di terreno si piantano circa 500 ulivi, questo calcolo può darci un’idea indicativa delle fatiche e del tempo impiegato dai contadini liguri.
Le specie liguri, così come quelle della nostra penisola sono al centro di numerosi dibattiti ed osservazioni: 400 specie diverse da conservare e da valorizzare.
In questi ultimi anni, nei quali, la genetica sembra fare da padrone in tutti i settori ed in tutte le discipline, compresa quella agricola, dobbiamo soffermarci un poco per valutare i rischi e le conseguenze.
Da un lato la genetica permette di ottenere le piante “migliori” ma fino a che punto lo sono realmente? Qual è il limite che si pone la scienza? Se da un lato abbiamo la possibilità di selezionare e scegliere la specie a noi preferita, è anche vero, che così facendo, escludiamo la altre specie e ne precludiamo il suo sviluppo e la sua sopravvivenza.
La differenza dei caratteri fra le diverse varietà era stata notata fin dall’antichità. Grazie a queste conoscenze, i selezionatori, hanno potuto utilizzare le diverse caratteristiche delle varietà tradizionali, che si erano sviluppate per migliaia di anni, al fine di creare nuove varietà adatte a situazioni particolari. Con un’attenta selezione delle caratteristiche desiderate, i coltivatori potevano eliminare i caratteri indesiderati ed arrivare, così, ad una linea “pura”, una varietà uniforme e capace di riprodurre questa uniformità.
Sebbene le nuove varietà fossero nettamente superiori sotto alcuni aspetti, in primo luogo sul piano del rendimento, talvolta mancava loro la resistenza o caratteristiche come la tolleranza al freddo, presenti in quelle tradizionali.
Determinante per il loro successo fu l’ eterogeneità  spaziale dei primi sistemi agricoli: coltivazioni miste ostacolavano la diffusione di malattie ed insetti. Con le nuove varietà, la flessibilità di un adattamento generico si sostituì a qualcosa di più specifico ed inflessibile. La sostituzione delle varietà tradizionali con le linee pure piantate su migliaia di acri aprì la strada a nuove malattie. In un campo di varietà tradizionali un insetto nocivo può attaccare una pianta, ma quella vicina può essere sufficientemente diversa da salvarsi.
In un campo con varietà moderne, se ne viene attaccata una lo saranno tutte.

E’ proprio in questo contesto che nasce e si sviluppa il concetto di bio-diversità: da un lato la consapevolezza che la scelta della specie “migliore” non sempre coincida con l’effettiva realtà dei fatti e dall’altro la voglia di proteggere la diversità delle varietà, considerate come patrimonio territoriale e culturale.